Un piccolo vademecum per chi utilizza i cartelloni come forma pubblicitaria, un’analisi marketing che potrebbe aiutare le imprese
Chi si sposta spesso in auto tra Cilento e Vallo di Diano — io per primo, tra trasferte di lavoro e appuntamenti con i clienti — a un certo punto se ne accorge.
I cartelloni ci sono.
Ma spesso non si vedono.
E non perché la pubblicità analogica non funzioni più.
Anzi: nei territori come i nostri funziona ancora.
Il problema è come viene usata.
Girando per le strade, gli errori che saltano all’occhio sono sempre gli stessi.
E sono tre.
Errore n.1
Cartelloni scoloriti (e lasciati lì per anni)
È l’errore più evidente, ma anche quello che chi investe tende a non notare più.
Molti cartelloni sono scoloriti dal sole, con colori spenti e grafiche chiaramente datate.
Talmente abituali da diventare parte del paesaggio.
Qui entra in gioco una dinamica percettiva molto semplice:
il cervello associa ciò che appare scolorito a ciò che è vecchio.
In modo automatico, inconscio.
“Se non curano questo, chissà il resto.”
È questo il pensiero che si attiva nella mente di chi guarda.
Non viene formulato a parole, ma viene sentito.
Non serve che sia vero.
Basta che sembri vero.
Un cartellone scolorito comunica una cosa sola: assenza di aggiornamento.
Errore n.2
Usare il cartellone come se fosse un volantino
Qui il problema non è il colore.
È la quantità.
Troppo testo, troppe frasi, troppi concetti messi insieme.
Ma mentre guidiamo non stiamo leggendo, non stiamo valutando, non stiamo confrontando.
Stiamo arrivando da qualche parte.
Il cervello è in modalità risparmio energetico.
Quando l’informazione è eccessiva, succede sempre la stessa cosa:
il cervello stacca.
Non sintetizza.
Ignora.
E quel cartellone, anche se pieno di contenuti, viene percepito come rumore visivo lungo la strada.
C’è, ma non lascia traccia.
Errore n.3
Non è chiaro a chi si sta parlando
Questo è l’errore più sottile.
Ed è anche quello che costa di più.
Molti cartelloni parlano a tutti, in generale, senza un destinatario preciso.
Usano frasi valide per chiunque, quindi per nessuno in particolare.
Ma il cervello umano funziona all’opposto.
Presta attenzione solo a ciò che sente rilevante per sé.
Se in due secondi non capisco se è per me, se riguarda il mio problema, se parla alla mia esigenza, il messaggio viene scartato automaticamente.
Quando il target non è chiaro, la mente decide:
“Non è roba mia.”
E va avanti.
Cosa pensa chi guarda i cartelloni, senza rendersene conto
Chi passa ogni giorno davanti a questi cartelloni — andando al lavoro, rientrando a casa, spostandosi per commissioni o appuntamenti — anche senza fermarsi davvero a guardarli, qualcosa se la porta dietro.
Spesso è una sensazione rapida, quasi automatica, che suona più o meno così:
- “Questi cartelloni sono sempre qui”
- “Li vedo tutti i giorni, ma non mi dicono niente”
- “È Talmente scolorito che non riesco nemmeno a leggere il testo”
Non sono giudizi ragionati.
Non sono pensieri formulati con precisione.
Ma restano.
Ed è da lì che nasce la percezione di un’attività:
non da quello che dice di sé, ma da quello che riesce davvero a comunicare nel tempo.
Perché nei nostri territori questo pesa ancora di più
Nel Cilento (e nel Vallo di Diano) la forza non è la quantità.
È la ripetizione quotidiana.
Passiamo davanti agli stessi cartelloni ogni giorno, per anni, sugli stessi tragitti.
Li vediamo anche quando non li guardiamo.
Ma se quel messaggio è scolorito, confuso e non parla a nessuno in particolare, la familiarità non si crea mai.
E senza familiarità, nel commercio locale, non nasce fiducia.
Il punto non è togliere i cartelloni. È usarli meglio.
La pubblicità analogica, nei territori come il nostro, ha ancora senso.
Ma va trattata come uno strumento vivo, non come un arredo stradale.
Aggiornare.
Semplificare.
Chiarire a chi si sta parlando.
Scelte di comunicazione, non di marketing aggressivo.
E fanno la differenza tra “l’ho messo” e “mi porta persone”.
Perché, alla fine, chi comunica meglio non è chi dice di più,
ma chi viene capito al primo sguardo.



